Il Trecento fiorentino. Firenze ai tempi di Dante

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Nel 1200, l’intera regione Toscana, in generale, e la città di Firenze, in particolare, si trovava ad essere una realtà particolarmente soggetta a divisioni e frazionamenti, sia dal punto di vista politico, che dal punto di vista sociale e linguistico. Una città divisa, caratterizzata da un potere non centralizzato e soggetta a improvvisi mutamenti, si manifestava innanzitutto come centro disordinato e debole, in balia degli eventi contingenti, soggetta dunque a numerose criticità interne. Questa era appunto la Firenze per come appariva ai tempi del Poeta, dove l’oligarchia dei potenti e dei ricchi, che regnavano nel XI secolo, non comportava alcuna convivenza pacifica, generando forti contrasti e antagonismi.

In particolare, nell’anno di nascita di Dante, il 1265, Firenze stava attraversando un momento particolarmente complesso, all’interno di un’evoluzione e di un dinamismo che mutano continuamente l’assetto socio-politico della città: la vittoria delle truppe ghibelline, guidate da Manfredi, figlio di Federico II di Sicilia, ha portato la disfatta e l’allontanamento delle truppe guelfe. Tuttavia, nel 1266, in seguito all’improvvisa morte di Manfredi, si riaccese la speranza del ritorno a Firenze da parte delle truppe guelfe.

Papa Clemente IV si impegnò affinché guelfi e ghibellini potessero convivere in città in modo pacifico, assicurando alle due fazioni nemiche un eguale trattamento sociale e pari peso politico. Nonostante l’apparente equilibrio tra le due forze, Firenze era perlopiù dominata dalla parte Guelfa, che si assicurò il dominio economico e politico della città.

Verso la fine del XIII secolo, Firenze era comunque una realtà profondamente lacerata al suo interno: con l’aumentare della supremazia della fazione dei guelfi, cresceva di pari passo il malcontento del ceto nobile, costituito dai più emergenti mercanti fiorentini delle Arti Maggiori, che da sempre erano in contrasto con il ceto popolare delle Arti Minori. Tali dissidi comportavano infinite molte tensioni, alimentate dalla consapevolezza dell’impossibilità di una riconciliazione pacifica tra le parti. Nel 1293 fu emanato un provvedimento di carattere filopopolano, che prevedeva l’esclusione dei nobili dalla maggior parte delle cariche politiche e, al tempo stesso, l’accesso a quelle medesime cariche da parte di coloro che, nel ceto medio della popolazione, fossero iscritti ad una delle Arti. Ebbe così inizio la carriera politica di Dante, che, non appartenendo propriamente al ceto magnatizio, apparteneva all’Arte dei Medici e Speziale.

Questi furono anni molto particolari per Firenze, in cui la città, soggetta a controversie politiche, conobbe profonde variazioni; una di queste investì lo sviluppo urbanistico, attraverso l’ampliamento delle antiche mura cittadine, risalenti all’epoca romana di Carlo Magno, che fino ad allora erano state il simbolo di una realtà circoscritta, chiusa nei suoi principi morale e nelle sue leggi ben definite. Con la progressiva annessione di nuovo territori, venivano introdotti nella città elementi sociali eterogenei, che finirono per contaminare l’ordine originario, comportando una rapida variazione nell’assetto sociale della popolazione, dimostrato dal repentino involgarimento dei costumi.

Dopo la cacciata dei Ghibellini, la Firenze guelfa si divise ulteriormente in due schieramenti: i Guelfi Bianchi, di cui fece parte il Poeta, capeggiati dalla famiglia dei Cerchi, e che guardavano con simpatia i Ghibellini esiliati, e i Guelfi Neri, capeggiati dalla famiglia Donati, di ascendenza filopapale. La complessa realtà storica vissuta da Dante non è altro che il rispecchiamento dell’antica rivalità fiorentina, che vedeva contrapporsi la vecchia aristocrazia e la nascente borghesia affarista.

Con l’affermarsi della fazione dei Neri, i Bianchi persero ogni controllo e carica pubblica, venendo allontanati dalla città. Lo stesso Dante, accusato di corruzione e baratteria, fu costretto a ritirarsi in esilio, abbandonando l’amata Firenze.

I complessi giochi di potere, che attanagliavano Firenze, così come l’intero panorama italiano,  a cavallo tra il XIII e XIV secolo, sono più volte descritti dall’Alighieri nella Commedia. Nel VI Canto del Purgatorio, infatti, si legge:

Ahi, serva Italia, di dolore ostello,
nave senza nocchiere in gran tempesta
non donna di provincie, ma bordello.” 

Quella che Dante si era visto costretto ad abbandonare era una città ormai profondamente corrotta dall’insaziabile desiderio di potere, tradendo tutte le attese del Poeta, a favore invece di un crescente interesse per la ricchezza, a discapito della correttezza e dell’onestà. Lucro, potere e tradimento corrispondevano ai tre grandi vizi della società fiorentina di inizio Trecento.

All’immagine di una Firenze concreta, così come vissuta e descritta da Dante, una città lacerata, sprofondata nel vizio e nella corruzione dilagante, si può contrapporre la Firenze che l’Alighieri sognava: si trattava di una realtà quasi utopica, divenuta ormai irrealizzabile in seguito ai sanguinosi eventi che ne hanno contraddistinto gli anni da lui vissuti. La Firenze desiderata è quella che Dante, nella Commedia, lascia descrivere ad un suo trisavolo, Cacciaguida, vissuto nel XI secolo e morto nella seconda Crociata in Terrasanta. Così risuonano le sue parole, nel XV Canto del Paradiso:

Fiorenza dentro da la cerchia antica,
ond’ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica.
Non avea catenella, non corona,
non gonne contigiate, non cintura
che fosse a veder più che la persona.”

Quella descritta da Cacciaguida è una realtà onesta e virtuosa, priva di invidie e di sopraffazioni, dove alla vanità e all’inutile sfarzo si preferisce l’austerità e la morigeratezza. La Firenze dantesca era invece caratterizzata esclusivamente dall’arte del guadagno e del predominio politico, elementi che, in un brevissimo arco di tempo, fecero della città il più importante centro economico dell’Europa medievale.

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